Tagli, chiusure e silenzi accendono la rabbia dei lavoratori
La protesta che ha investito UniCoop Etruria nelle ultime settimane ha assunto dimensioni che molti osservatori definiscono senza precedenti nel panorama cooperativo italiano. In Umbria, Toscana e Lazio l’adesione allo sciopero ha raggiunto punte dell’80%, un dato che racconta più di qualsiasi dichiarazione il livello di tensione accumulato tra i lavoratori. Non si tratta della contestazione contro una “falsa cooperativa”, come talvolta accade nel settore, ma di una mobilitazione rivolta contro una realtà storica del movimento cooperativo, un elemento che rende la vicenda ancora più significativa.
La scintilla è scattata a soli sei mesi dalla fusione tra Coop Centro Italia e Unicoop Tirreno, un’operazione presentata alle istituzioni umbre come un passaggio strategico capace di aprire “nuovi orizzonti di sviluppo”. La narrazione ufficiale parlava di sinergie, rilancio e prospettive di crescita. La realtà emersa dopo l’unificazione, però, ha mostrato un quadro radicalmente diverso: un piano di ristrutturazione duro, immediato e percepito come ingiustificato.
La nuova cooperativa, che conta oltre 5.000 dipendenti, ha annunciato la necessità di ridurre il personale di almeno il 10% e di chiudere 24 punti vendita considerati non più sostenibili. Una comunicazione arrivata alla vigilia delle festività natalizie, in un momento in cui i lavoratori si aspettavano stabilità e non un taglio così drastico. La rapidità del piano ha alimentato un sospetto diffuso: la fusione avrebbe nascosto una crisi profonda, forse il rischio di default di una delle due cooperative, se non di entrambe.
Il silenzio delle Centrali Cooperative, rimaste ai margini nonostante l’impatto reputazionale sull’intero sistema, ha aggravato la percezione di una gestione opaca. Per molti dipendenti, l’assenza di una presa di posizione chiara da parte delle strutture nazionali è stata vissuta come un tradimento dei valori fondativi della cooperazione. In un modello che si basa sulla partecipazione e sulla condivisione delle responsabilità, il vuoto istituzionale ha pesato come un macigno.
La crisi, secondo diversi analisti, affonda le radici in anni di scelte gestionali discutibili. La grande distribuzione è un settore in cui il costo del lavoro incide mediamente per circa il 15%, un dato che rende ancora più difficile comprendere la necessità di un taglio così ampio e repentino. In altre stagioni economiche, situazioni analoghe erano affrontate con piani graduali, accompagnati da un dialogo costante con i territori e con i soci. Oggi, invece, la sensazione diffusa è che il management operi senza vincoli reali, in una sorta di “neocapitalismo senza capitalisti”, dove le conseguenze delle decisioni ricadono interamente sui lavoratori.
La protesta non nasce solo dai numeri, ma da un sentimento profondo di tradimento. Molti dipendenti vivono la cooperativa come un pezzo della propria storia familiare, un patrimonio costruito in Umbria nell’arco di tre generazioni. Vedere quel patrimonio messo a rischio da scelte percepite come miopi ha acceso una rabbia che si è trasformata in mobilitazione collettiva. Gli 800.000 soci cooperatori, che non sono semplici clienti ma parte integrante della governance, non sono stati coinvolti né informati in modo trasparente.
Le ragioni della protesta, sintetizzate dai sindacati, sono chiare: tagli al personale, chiusura di 24 punti vendita, tempistiche considerate brutali, sospetto che la fusione abbia mascherato un rischio di default, silenzio delle centrali cooperative, mancanza di trasparenza e difesa di un patrimonio sociale costruito in decenni. Ogni punto rappresenta un tassello di un malessere che non riguarda solo il lavoro, ma l’identità stessa del modello cooperativo.
Le ragioni reali della protesta:
1. Annuncio di tagli al personale_La nuova cooperativa ha comunicato la necessità di licenziare almeno il 10% dei lavoratori. Parliamo di oltre 500 persone potenzialmente coinvolte. Per chi lavora in una cooperativa – dove il lavoro dovrebbe essere un valore fondante – questo è stato percepito come uno strappo gravissimo.
2. Chiusura di 24 punti vendita_Sono stati dichiarati 24 negozi “improduttivi” da chiudere o ridimensionare. Questo significa trasferimenti forzati, perdita di posti di lavoro e impoverimento dei territori.
3. Tempistiche considerate brutali_Le comunicazioni sono arrivate a ridosso del Natale, dopo appena sei mesi dalla fusione presentata come “opportunità di sviluppo”. Molti lavoratori hanno vissuto questo come un tradimento della fiducia.
4. Sospetto che la fusione nascondesse un rischio di default_La rapidità e la durezza del piano hanno alimentato l’idea che la fusione servisse in realtà a coprire una crisi profonda di una o entrambe le cooperative. I lavoratori si sentono usati come “ammortizzatore umano”.
5. Silenzio delle Centrali Cooperative_Nessuna presa di posizione forte da parte delle centrali. Per chi crede nella cooperazione, questo silenzio pesa come un macigno.
6. Mancanza di trasparenza e coinvolgimento_I sindacati denunciano una gestione chiusa, con scarse informazioni e nessun confronto reale. I soci – 800mila persone – non sono stati coinvolti, nonostante siano parte integrante del modello cooperativo.
7. Difesa di un patrimonio sociale costruito in decenni_Molti lavoratori vivono la cooperativa come un pezzo della propria storia familiare. Vedere tutto messo a rischio da scelte manageriali percepite come miopi ha acceso la protesta.
La mobilitazione dei lavoratori chiude un anno segnato da tensioni crescenti e apre un 2026 carico di interrogativi. La speranza, condivisa da chi oggi è in lotta, è che il nuovo anno porti soluzioni più eque, capaci di salvaguardare l’occupazione e di restituire credibilità a un modello che per decenni ha rappresentato un punto di riferimento per intere comunità. Per molti, la battaglia non è solo per il posto di lavoro, ma per difendere un’idea di cooperazione che rischia di essere snaturata.
Il futuro di UniCoop Etruria dipenderà dalla capacità di ricostruire fiducia, ristabilire trasparenza e rimettere al centro i valori che hanno reso la cooperazione un pilastro sociale ed economico del territorio. Senza un cambio di rotta, la frattura emersa con lo sciopero rischia di trasformarsi in una crisi irreversibile.

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